Donatella Talini

Donatella Talini

venerdì 7 dicembre 2012

Raffaele

Lunedì 7 dicembre di tre anni fa Raffaele Cioffi non c'era più. Con lui ho condiviso molte parole, a volte scherzose e a volte serissime. Ho sentito per l'ultima volta la sua voce attraverso il telefono, era  stanco e sotto l'effetto del cortisone: mi aveva appena raccontato una cosa molto brutta, ma poi ci siamo salutati dandoci appuntamento "A presto". E invece non ci sarà ne Mathausen né Carosello. Un pensiero per Raffaele. L.

lunedì 22 ottobre 2012

mercoledì 17 ottobre 2012

La vela gialla e il mare sotto

Biblioteca Comunale di Castelfranco di Sotto
mercoledì 24 ottobre 2012 ore 21.30


Incontro con Luca Nardini - introduce Fabrizio Nelli

"Il dolore, la consapevolezza, il potere generativo della poesia"


venerdì 12 ottobre 2012

L'albero


E così al signor Itchek gli è tornato in mente quell'albero della sua infanzia, il suo albero, un pesco. Ora giurerebbe di aver passato pomeriggi interi fra i suoi pochi rami, circondato dal vuoto. Ma è molto probabile che la memoria, come sempre, non riporti in vita le cose così come sono state, avendo più dimestichezza con gli aggiustamenti. E poi un quarto d'ora dei suoi sette anni di età vale senz'altro un giorno di adesso.

Comunque: lui se ne stava sdraiato su un paio di rami che sembravano fatti apposta, le gambe all'aria, gli occhi puntati verso il cielo. E magari nel cielo trascorrevano, lentamente, le nuvole – oppure ridondavano lassù, dorate e piene di pienezza come una panna dolce. Il bambino però smetteva di osservarle quasi subito. Alle nuvole preferiva lo spazio fra le nuvole, specialmente se si trattava dell'azzurro crudo di una maiolica. Vi ficcava lo sguardo. Solo e sospeso, l'azzurro sopra di lui, le radici affondate nella terra. C'era già tutto.

martedì 21 agosto 2012

Il miglior posto per le vacanze

Si mise a sedere sulla panchina, l'ultima. Il mare gli sputava addosso il bagnato del salmastro. Improvvisamente percepì che l'orizzonte vomitava un suono cupo, che andava distendendosi nel vuoto ben oltre il necessario. Così alzò la testa e spalancò gli occhi verso il cielo, per respirare, ma la luce del lampione lo colpì come una sassata. Anche la luna non riusciva a trovarla da nessuna parte. "Questo qui", concluse, "di sicuro non lo puoi dire il miglior posto per le vacanze...".

martedì 14 agosto 2012

Godetevi Charlot e "la polverina"


Da "Tempi moderni" (1936). Occhio alla saliera! Non contiene il sale della terra (clicca!)

domenica 12 agosto 2012

La vergogna di chi tiene nascoste le cose

Chi non è abituato a esporsi; chi fa i suoi calcoli e alla fine decide o si lascia decidere dai propri alibi, dalle proprie scuse, dalla vigliaccheria; chi sceglie sempre i maestri sbagliati perché si basta così com'è, gretto, meschino, basso; chi ha la faccia di gomma; chi è cattivo/cattiva; chi vive perpetuamente in malafede; chi sarà subito pronto/pronta a leccare il culo al prossimo padrone o presidente o direttore o capoccia o kapò; chi scodinzola e fa le fusa; chi continua a sbattere le palpebre con gli occhioni di gatto/gatta e cerca di intenerirti per fregarti meglio; chi omette di dire e ti manda allegramente alla macellazione; chi non ha vergogna; chi è così perché ha perso la speranza di poter diventare una persona diversa, o capisce che per lui/lei sarebbe troppo faticoso e forse fin troppo nobile cercare di migliorarsi. 
Il coraggio di chi sa e dice quello che sa ha invece un peso specifico veramente duro da sostenere, e sono pochi – pochissimi! – quelli che gli daranno mano. E poi non dovrai raccontarti le solite frottole come imparano a fare tutti gli altri, non potrai dirti che non te n'eri accorto, e nemmeno “chi se lo sarebbe mai aspettato?”. Non cercherai di coprire lo scandalo, il marcio, la connivenza quotidiana con quanto era e continua ad esserci di pusillanime, di ipocrita e in fondo di banalmente risaputo – da tutti.
P.S. Le parole di cui sopra sono da recitare ogni mattina, di fronte allo specchio, prima di avviarsi al lavoro e salutare educatamente i colleghi. Per complicarsi un po' la vita con l'autenticità, evitando di stringersi la mano, fare girotondo, e ricordarsi reciprocamente che noi lavoriamo qui - e che teniamo famiglia...

giovedì 17 maggio 2012

Il posto macchina

Era un portatore di handicap molto permaloso, e forse anche cattivo. Aveva una di quelle automobili con lo sterzo adattato ai suoi braccini secchi e contorti come ceppi di vite. E guidava in modo pessimo. La porta di casa sua era l'ultima, poco prima che la provinciale curvasse fuori dal paese. Gli avevano detto: “Se vuoi il posto macchina riservato devi fare richiesta in comune”. Ma lui non poteva tollerare il simbolo della carrozzina e il rettangolo a strisce gialle di fronte alla porta di casa. Così non inoltrò la domanda, benché rimanesse convinto che nessun altro avrebbe potuto parcheggiare in quello spazio che considerava suo di diritto.

La prima macchina a venir sfigurata lungo l'intero perimetro della carrozzeria fu un Audi di lusso. Avevano adoperato senz'altro una chiave. Il tratto, sebbene rabbioso, appariva piuttosto incerto. Quando toccò a una Fiat Panda e a una Skoda Fabia fu chiaro a tutti che non si trattava di lotta di classe. Era semplicemente lui, un handicappato cattivo molto permaloso. “E anche una merda!” fu il pensiero di Giovanni Biondi, proprietario della Skoda Fabia modello base - e mentre pensava questo pensiero stava pisciando sul cofano di quell'automobile assurda progettata per un paio di moncherini secchi. L'handicappato non si dette per vinto. Ogni volta che era di ritorno da una giratina sulla “stronz-mobile” - che i paesani l'avevano ribattezzata così - ecco la sorpresa di un'auto parcheggiata proprio là, in quello che era il posto “suo”, allora si metteva a urlare come un indemoniato e si attaccava al clacson. Anche il clacson della stronz-mobile aveva un suono rauco e fesso, o forse erano quei due stecchi che ci smanacciavano sopra. Le prime volte il parcheggiatore abusivo correva a spostare la macchina, un po' anche per la paura, ma poi ci fecero l'abitudine e lo lasciavano lì a sgolarsi e incazzarsi che non ti dico. Un giorno gli prese anche un attacco di convulsioni con bava e tutto, e quando alla fine si calmò e il dottore gli fece la seguente domanda - “Ma perché non richiedi in comune il posto macchina riservato? - lui non si capì bene che cosa rispondesse, perché anche nella pronuncia della lingua italiana era parecchio indietro. Ma sembrò una bestemmia enorme, addirittura irripetibile.

Di notte l'handicappato non dormiva più. Lasciava apposta la sua macchinaccia nello spazio appena contiguo a quello che considerava il suo, e stava di sentinella alla finestrina del bagno. Nel buio sgranava gli occhi per non cedere al sonno, e a volte aveva addirittura delle visioni. Gli sembrava per esempio di vedere Giovanni Biondi dietro al cassonetto, o acquattato nel giardino di fronte – Giovanni Biondi se lo ricordava bene che gli aveva pisciato sul cofano... Alle tre del 24 ottobre gli capitò di aggredire una coppietta che per pomiciare aveva scelto proprio il posto davanti all'ultima casa del paese, la sua. Poi un camionista straniero che aveva sbagliato strada. E alla fine non si trattenne nemmeno con l'auto biancablu della guardia di notte. Insomma, arrivarono i carabinieri con l'ambulanza e prelevatolo di forza lo accompagnarono – si fa per dire – in un istituto specializzato per quelli come lui, con i braccini rattrappiti e che gli era girato anche il boccino. Stette in cura per un annetto circa. Fu considerato guarito, almeno per quanto potevano guarire i nati con un grave, se non gravissimo, handicap. Quando ritornò a casa, il sindaco, come gesto di cortesia e buona accoglienza, gli fece trovare il posto macchina bordato dalla striscia gialla con la carrozzina, sempre gialla, al centro. Gli stradini comunali avevano lavorato di fino. Lui lo guardò senza nemmeno urlare. La sua macchina assurda riadattata per quelli come lui gliel'avevano portata via le autorità. E la patente speciale per il guidatore handicappato anche.

giovedì 3 maggio 2012

Ancora Dolls

Biblioteca di Empoli Sala Maggiore Venerdì 11 maggio 2012 Incontro con l'autore di Dolls Introduce Martina Marchi

martedì 3 aprile 2012

Cosa ne pensi del governo Monti?

Semplice: la politica apparentemente introdotta per salvare il bilancio pubblico serve invece per salvare i grandi gruppi finanziari. Quindi? Clicca qui!

lunedì 5 marzo 2012

Il ponte


Il mare si faceva sempre più nero, furioso: era il mostro che ci avrebbe divorato, lo sapevamo bene. La spiaggia da dove iniziò l’impresa non si vedeva quasi più, e c’era chi inventava favole sulla nostra nascita – non scorgevamo nemmeno l’isola, e alcuni di noi la chiamavano Itaca, cantavano la nostra sorte.

Solo il mare, lo scricchiolio di un ponte incompiuto. Ma avevamo dei giunchi, così esili che si flettevano a ogni respiro, e continuammo a costruire. Non c’era una terra ad attenderci, sapevamo anche questo; forse era stata inghiottita anche la spiaggia, e il ponte poggiava sul nulla – si diceva che isola e spiaggia fossero parti dello stesso buio. Sentivamo il ruggito del mare, e sarebbe bastata un’onda poco più alta perché anche la nostra vita venisse spazzata via – avevamo perse decine e decine di compagni, e la notte, per non sentirci mancare ci stringevamo forte l’un l’altro. Ma intrecciammo ancora i nostri giunchi, e vestivamo di mille colori, con mille copricapo come creste e canti di uccelli, era l’unico piacere che c’era dato e non volevamo perderlo.

Ridevamo della nostra sorte: un ponte di giunchi che si inarcava nell’assenza di orizzonti. Ed eravamo folli e caparbi, e raccontavamo le nostre favole.


martedì 21 febbraio 2012

GINO AL CINEMA (ovvero IL CINEMA PER GINO)




Gino, quando va al cinema, siccome ci si trova bene, il film lo vede due volte e mezzo-film.

Quando si riaccendono le luci per l’intervallo, guarda sempre chi c’è seduto nei posti didietro al suo, casomai ci fosse Giovanni.

Siccome per lui è stato difficile raccapezzarcisi, a tutti quelli che si alzano durante la proiezione si sente in dovere di dirgli dove.

Gino, in bagno, anche se dopo non si laverebbe mai le mani, visto che c’è il dispenser se le lava. E siccome si accorge che c’erano anche le salviette, se le lava un’altra volta.

Nel buio della proiezione filmica sta attento a tutto quello che gli succede.

Gino va al cinema a Pasqua e a Natale, come si va al ristorante per le ricorrenze.

Preferisce i film di azione con parecchi morti ammazzati. Ogni tanto, nel film, gli piace riconoscere anche un animale. Se ammazzano l’animale si commuove.

Legge tutte le pubblicità locali per vedere se le capisce. Gli piace rendersi conto di sapere qual è quel negozio o quell’altro, in borgo.

Se lo incroci con lo sguardo prima che inizi il film, sorride. Se lo incroci dopo sorride uguale.

Tarantino, per Gino, è il figliolo di Tàranto, quello che sta sottopoggio.

A Gino i cartoni animati lo fanno ridere.

Al cinema ci va da solo, perché non è sposato. Fidanzato nemmeno. Però, al cinema, anche se ci vai da solo, ti ritrovi in parecchi. Al buio.

Gino, per lui il cinema è una festa.

Senza farsene accorgere, nell’oscurità, guarda quelli che gli stanno accanto nella sala.

Data la gentilezza d’animo, durante la proiezione sta sempre zitto.

Gino, anche se il film non gli piace, lo vede tutto, perché da un certo punto in poi gli potrebbe anche piacere, perché no?

Mentre guarda il film, pensa a come lo racconterà domani, a Giovanni.

Gino ignora che cos’è una recensione. Invece sa perfettamente che cos’è una recinzione.

Gino si commuove parecchio per la musica parecchio commovente. Se poi affonda anche una nave è il massimo.

Quando fuori piove, l’ombrello gocciolante non sa dove bisogna metterlo. Nel portaombrelli mai, perché a Giovanni gliel’hanno rubato!

Nell’incertezza, lascia liberi ambedue i braccioli.

Gino, quando vede un film che gli piace, gli piacerebbe avere il televisore grande così.

Gino ignora Fellini. Ignora anche i felini. Il gatto invece ce l’ha, bianco e nero, e si chiama pippo, scritto così, minuscolo.

Si capacita dei titoli di coda, poiché la coda è la fine dell’animale, sebbene non tanto utile se non per scacciare le mosche. E allora gli uomini sarebbero le mosche che gli si dice “Sciò, andate via, il film è finito…” E qui ci sarebbe da riflettere.

Gino, quando una scena è parecchio triste, pensa al suo amico Giovanni e al gatto pippo, che farebbe lui, poverino, se fossero morti tutti e due.

Quando appare un personaggio nuovo Gino si domanda chi è, come se vedesse uno che gli attraversa il campo. Non aspetta che glielo dica il film. A quelli più cattivi lui gli tirerebbe una zolla, nel film e nel podere.

Non mangia mai il popcorn. Perché non mangia fuori dai pasti e perché gli mette sete. E poi non gli piace nemmeno. A Gino mangiare il popcorn per bere la coca-cola gli pare illogico.

Durante la proiezione di un film da ridere si sforza di ridere giusto. Generalmente cerca di sincronizzarsi con la risata di quello che gli sta davanti. Ma questo soltanto nel secondo tempo. Nel primo è costretto a sparacchiare a caso e diverse volte sbaglia.

Gino una volta vide un film tutto rincantucciato perché aveva paura di parare quello didietro, che era bassino.

Conserva il biglietto nel portafoglio per giorni e giorni, perché non si sa mai quello che potrebbe succedere.

Gino la prima volta che andò al cinema non si ricorda nemmeno il film che vide. Forse quello di quella che vola con l’ombrello, Meripoppins. O forse un film di pistoleri di due che dicevano “Io sono il più veloce” “No sono io” e morivano tutti e due perché erano velocissimi ma veloci uguali.

Una volta è andato al cinema con Giovanni e gli è piaciuto lo stesso, anche se a Giovanni il film non gli era piaciuto e a lui soltanto un pochino di più.

A Gino gli piacerebbe avere un pensiero che corre veloce come il film, e stargli sempre dietro, al film e al suo pensiero. Ma a volte non ci capisce nulla, e rimane disorientato, e non sa più se il film è troppo veloce o se è troppo lento il suo pensiero. A ben vedere non riesce nemmeno a raccapezzarsi sul fatto che pensiero e film corrano la stessa corsa, boh.

sabato 11 febbraio 2012

Bambini

Il padre di Ronnie faceva il camionista. Ci eravamo inventati che contrabbandava le sigarette, uno alla volta appoggiavamo il naso sulla fessura degli sportelli del rimorchio e sì, sentivi proprio l'odore, e forte, di tabacco. Il primo a mostrarci il punto giusto dove annusare fu appunto Ronnie.

Dell'infanzia si dice che è un'età magica, piena d'incanti - e così ce la portiamo dietro per tutta la vita a raddolcire le sconfitte di noi adulti, la nostra piattezza cupa e raggelata nelle innumerevoli delusioni. I bambini sarebbero infatti pieni d'immaginazione, creativi, autentici. Specialmente quel bambino che ci sta rannicchiato dentro, e che comunque è sempre lui che si lascia ancora sorprendere dalle cose semplici e meravigliose: un riflesso sul vetro della finestra, l'odore del pane appena sfornato con il burro e la marmellata, il rumore della pioggia. Sarà...

Io invece ricordo quei barattoli di vernice a mezzo, a imbrattare il fosso che delimitava l'ultima campagna. Li avevano scaricati lì e lì rimasero per anni. C'era anche il meccanico, che si chiamava Simone, che invece lui nel fosso ci buttava le vecchie batterie piene d'acido. Erano i nostri giocattoli, era un mondo misto di erbacce, asfalto, spazzatura da selezionare. Il grano del campo pareva invece buono per essere schiacciato e nascondercisi dentro. I romantici si credono forse dei bambini, ma i bambini che ho conosciuto io non erano affatto romantici. Quando scivoli con un cartone sotto al culo la bellezza sta proprio nel pezzo di cartone che ti fa scivolare giù, l'argine è soltanto un piano inclinato. Cosa te ne frega delle foglioline verdi e dei fiori appena sbocciati? Meglio la legge di gravità, meglio i corpi rotolanti e la fisica, meglio la tecnologia.

A scuola però ci facevano disegnare le spighe dorate, perché a scuola andava per la maggiore la natura: la spiga rigogliosa gialla,  rosso il papavero e il fiordaliso azzurro. La spiga tiravi un frego un po' curvo e i chicchi di qua e di là, chicco su chicco. Il papavero invece con quella specie di moscone peloso al centro. E il fiordaliso? chi l'aveva mai visto un fiordaliso? Paolo mi disse che disegnarlo era abbastanza facile: il colore lo facevi uguale al nostro fiocco di maschi e il petalo però seghettato. Messo per traverso poteva sembrare anche la bandiera delle tre caravelle di Cristoforo Colombo che avevano la croce cristiana sulle vele e si chiamavano, in ordine, la Nina, la Pinta e la Santa Maria. Nina si scrive Nina però si legge nigna, perché è spagnolo... Santa Maria invece era la stessa cosa di “Bambini, prima di tutto scrivete la data: Santa Maria a Ripa, Empoli, 12 ottobre 1970... E poi cominciate il disegno della scoperta dell'America!”. Perché a scuola furoreggiava anche la storia e le sue celebrazioni e in particolare quelle sacre: crocifissioni, natalità, ascensioni della madonna o del risorto – e quella volta che la maestra ebbe l'idea geniale di raccontarci del sacrificio del giovane Isacco, e la maggior parte di noi sbagliò, proprio per il gusto di disegnare un coltellaccio sanguinolento... Molti dimenticarono Isacco e lì sulla pietra c'era l'ariete, vuoi mettere? Nidiaci Filippo, invece, sgozzò direttamente il bambino. La maestra impallidì.

Perché la realtà vera era un'altra. Il padre della mia amica Linda, per esempio, lui faceva il falegname per tutto il giorno e così una cosa che trovavi facile era la segatura, e siccome ci si arrangia con quello che c'è, veniva comodo prendere un secchio, buttarci l'acqua dentro e impastare e pressare forte dei bomboli di segatura e trucioli. Diventavano proiettili perfetti per tirarli di nascosto alle macchine che passavano, in verità abbastanza rare. Non era uno scherzo, perché i bomboli un po' rinvolavano, cioè andavano di qua e di là. Avevo già trent'anni quando gli adolescenti più annoiati laciavano cadere le pietre dai cavalcavia. E magari può sembrare cinico, ma la prima cosa che mi venne in mente dopo aver letto quell'articolo di giornale fu: “Eh no, carissimi, con i sassi è troppo semplice...”. Oppure staccare le teste alle lucertole. Lo so, c'è da non crederci, ma un mio amico lo faceva a morsi, sebbene con quelle più piccole di nido. Si poteva domandargli anche il perché, e lui aveva la risposta: “Non lo sai che i cinesi mangiano i serpenti?” “Chi te l'ha detto?” “L'ha detto la televisione!”.

Perché la maestra ci chiamava in piedi alla cattedra e dovevamo raccontare alla classe i programmi televisivi che avevamo visto il giorno prima. E scoprimmo quasi subito che lei avrebbe preferito che dicessimo che si guardavano proprio i più noiosi, quelli tipo il telegiornale. A noi ci piaceva da morire Carosello invece, e anche i cartoni animati, e le comiche di Stanlio e Ollio. Il lunedì sera davano il film, Belfagor ci terrorizzava. I programmi di Enzo Tortora, le inchieste... che quando alla fine l'arrestarono mi venne da pensare: gli sta bene! Ma non conveniva parlarne. Molto meglio i documentari sul fiume Pò, almeno se volevi fare una buona impressione alla maestra. Non come Altavilla Antonio, che disse che suo padre gli aveva insegnato a distinguere le gemelle Kessler, perché Alice e Helene non erano proprio uguali, Alice infatti aveva le cosce più in carne. Cosce era una parola che era meglio non usare a scuola, sia a voce che soprattutto scritta. Carne la potevi usare insomma. Ma cosce e carne insieme proprio no!

Se i bambini fossero stati così pieni di magia o al limite così innocenti, perché mai metterli in punizione? “Con la faccia al muro!” “Dietro la lavagna!” “In ginocchio dietro la lavagna con la faccia al muro!” “Fuori!” E meno male che almeno il granturco e la ferula erano stati aboliti. Certo, anche se rari i metodi di una sana trazione pedagogica facevano la loro apparizione in qualche strascico: una piccola sberla, per esempio, o un colpetto di righello sulle mani, anche se soltanto sui palmi dove faceva meno male. Davano l'impressione di una collera trattenuta a stento, di un qualcosa che bolliva sotto ma non si poteva esprimere con la dovuta efficacia. L'unico modo sicuro di scamparla era quello di fare il bravo. Se poi ti consideravano il primo della classe o giù di lì, il problema non si poneva neppure - alla maestra restavi simpatico e magari, delle tue intemperanze, si diceva che erano dovute a una intelligenza troppo vivace, ma sempre d'intelligenza si trattava. Anzi, proprio perché era vivace eravamo tutti sicuri che si trattasse d'intelligenza vera. Perché allora l'intelligenza constava di un solo tipo, non come adesso che ce ne sono almeno una decina: quella linguistica, quella matematica e logica, quella corporea eccetera eccetera. Per misurarla, poi, niente di più facile, c'erano i voti. Un po' come la stoffa si misura con il metro a stecca e i numeri. I bambini non erano competenti, erano cavi e bisognava riempirli di cose che avrebbero imparato, punto. E quelli duri li curiamo noi: dopo un po' imparano anche loro, magari poco, magari un paio di sculaccioni, ma vedrai qualcosa imparano - le maestre erano ben educate schiacciasassi...

Fuori invece si giocava a pallone. C'era il muro della fabbrica della gomma, enorme, e chi non voleva brutte sorprese l'auto avrebbe dovuto parcheggiarla da un'altra parte. Lo si sapeva in tutta la via, quel lato della fabbrica era nostro. Il pallone rimbalzava in su e in giù per gran parte del pomeriggio. Volava dentro i piccoli giardini e spelacchiava i pochi fiori presenti, a volte schiantandosi direttamente su qualche finestra – gli avvolgibili meglio tenerli chiusi. I bambini insomma sciamavano dietro alla palla come le mosche. Meglio così che restare per tutta la vita dei poveri coglioni incatenati ai giornalisti sportivi, per tirarsi le seghe su Del Piero o su quei geni di Cassano e Totti. Ma questo è un altro discorso, perché allora il futuro non era nemmeno un'ipotesi: ai bambini, come a ogni altra bestia, si confà il tempo presente e soltanto quello.

I bambini i non profumano, i bambini casomai odorano o puzzano. Non è vero che “Cacca di bimbo cacca di Gesù!”. I bambini che ho conosciuto io scorreggiavano e si bruciavano i peti con il fiammifero sputando fuoco dal buco del culo, essendo la parola gas pertinente ai fenomeni fisici e non a quelli garbarti della poesia zuccherosa. I bambini anche ruttavano, tiravano sputi, si scaccolavano, appiccicavano il moccolo agli altri bambini. Insomma, i bambini erano bambini e basta. E Ronnie, carogna, era uno di noi: perché diceva che il suo babbo contrabbandava le sigarette per i contrabbandieri napoletani, e allora noi si annusava dove lui ci insegnava ad annusare e il rimorchio era pieno di tabacco.